giovedì 28 Marzo 2024
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Addio alla grande fotografa Lisetta Carni, una vita spesa per capire gli altri

Aveva 98 anni Lisetta Carni, la fotografia come denuncia sociale La musica e poi la luce, le manifestazioni di piazza, i reportage nelle favelas, gli anni passati a raccontare l’anima negli occhi dei travestiti, nelle lotte dei portuali, nei volti dei poeti.

Un’esistenza moltiplicata per cinque la sua, lunghissima con i suoi 98 anni compiuti a febbraio, ma anche incredibilmente varia, ribelle, anticonformista, unica, come sottolinea pure il ministro della Cultura Franceschini, seppure sempre “nel segno degli ultimi”, per “dare voce a chi non ce l’ha”. Dai suoni alla luce, perché all’inizio c’era il pianoforte e una carriera da concertista avviata già nell’immediato dopo guerra, a dispetto delle leggi razziali e del trauma – per lei fondativo – della cacciata dalla scuola a 14 anni, dei mesi nascosta, dell’esilio in Svizzera. Con il 1960 la prima svolta, quando per inseguire la passione civile scoprì da autodidatta la fotografia e ne fece una professione, abbandonando di colpo il pianoforte, le tournée, gli applausi, per gettarsi con una passione irruenta e felice nel racconto delle vite più disgraziate. “Se le mie mani devono diventare più importanti del resto dell’umanità, allora smetto”, raccontava di aver risposto perentoria al suo maestro Alfredo They che la sconsigliava di partecipare ad una manifestazione di portuali. Eccola allora, con una Leika regalatale dal padre, documentare il lavoro durissimo degli operai, le vite umiliate dei transessuali nella sua Genova, l’orrore della povertà più estrema, in Venezuela, dove ogni mattina si faceva accompagnare alla discarica a documentare la disperazione dei tanti impegnati a raccogliere qualcosa da vendere. Anni di scoperte, di battaglie, di viaggi, in Israele, Palestina, Sud America, Afghanistan. Senza dimenticare l’impegno per il teatro. O i tanti ritratti di artisti e intellettuali, alcuni rimasti leggendari, come quello che immortala il poeta Ezra Pound già anziano, gli occhi che brillano nel viso scavato di rughe. Uno scatto ottenuto in 4 minuti, racconterà poi dopo lei: “ma in quei 4 minuti ho capito quale grande poeta era. E soprattutto che non era fascista”. Un lavoro enorme, concentratissimo. “In 18 anni ho fatto quello che si fa in 50”, riconosceva qualche tempo fa con un pizzico di orgoglio, felice della riscoperta recente dei suoi scatti, con tante mostre che le hanno reso omaggio, dalla retrospettiva del 2018 a Roma al Museo in Trastevere, alla collettiva della Quadriennale “Fuori”, la rassegna del Man di Nuoro nel 2021, fino all’ultima, chiusa solo un paio di mesi fa a Palazzo Ducale di Genova dedicata al Porto e ai suoi lavoratori. “Il successo non l’ho mai cercato”, spiegava illustrando l’ennesima nuova vita, quella dedicata “al silenzio e alla meditazione”, che aveva scelto alla fine degli anni Settanta dopo l’incontro folgorante, in India, con il maestro yogi Babaji Herakhan Baba. Anche qui una svolta, Lisetta Carni considera finito il suo lavoro di fotografa, accoglie per sé un nome spirituale, Janki Rami, e si dedica mettere in piedi un luogo di spiritualità in Puglia, a Cisternino, dove aveva comperato un trullo e dove vivrà quasi cinquant’anni della sua lunghissima vita, lasciando al comune una parte delle sue foto e centinaia di libri. “All’inizio è stato duro, le persone qui non avevano nessuna apertura verso il divino”, raccontava ancora lei, dettando sicura le volontà per il dopo: “voglio essere cremata e poi dispersa in mare, nessuna tomba per me, voglio lasciare il segno negli esseri umani”. Il segno rimane, nell’atmosfera lieve, oggi, della stanza del commiato allestita per lei a Cisternino, come nei tanti volti umanissimi scolpiti nella luce del suo bianco e nero. Il messaggio è stata lei a indicarlo, ricordando una volta di più la ferita delle persecuzioni subite e di quelle alle quali ha assistito: “Ricordatevi, sempre, di pensare agli altri”

Lisetta Carni raccontava di se dicendo. “Ero la terza figlia dopo due fratelli maschi e per un periodo non ho capito bene se ero maschio o femmina, sono stati proprio i travestiti del vecchio Ghetto di Genova che ho fotografato che mi hanno fatto capire che non esistono uomini o donne, ma solo essere umani”.

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