Dalla lezione dei magistrati alle promesse della politica. Lo sguardo disincantato di un giovane sulla città e il sorriso amaro in una stazione deserta
L’ingresso di Palazzo Criscuolo, sede storica del Comune di Torre Annunziata, è gremito da una piccola folla di qualche decina di persone — studenti, autorità, molti “incravattati” — che attende l’inizio degli eventi dedicati a Giancarlo Siani. Tra loro, si riconosce anche il sindaco. Oggi si celebra l’anniversario della nascita del corrispondente de Il Mattino nei primi anni Ottanta, ucciso dalla camorra per aver indagato troppo sugli affari criminali nella città oplontina. Quest’anno ricorrono i quarant’anni dalla sua morte, e l’amministrazione comunale ha organizzato una serie di eventi in sua memoria. Questo è il primo; si concluderanno, il giorno del suo assassinio, il 23 settembre.
Al tavolo dei relatori siedono nomi illustri del mondo giudiziario, alcuni dei quali lavorarono sul caso del giovane giornalista. C’è la magistrata Giovanna Ceppaluni, che ricorda l’enorme mole di lavoro generata dal processo — “il faldone di carte che inondava quotidianamente il mio ufficio” — e la pressione di stampa e opinione pubblica. “Si scoprì in seguito”, afferma, “che a condannarlo fu un articolo scritto pochi mesi prima, in cui ipotizzava che dietro l’arresto del boss Valentino Gionta ci fosse lo zampino del clan locale, i Nuvoletta”. Ipotesi corretta, che coinvolgeva persino Totò Riina. Ma c’era un problema: i Gionta e i Nuvoletta erano alleati. Quell’articolo aveva offeso l’onore delle due famiglie. Non poteva esserci pietà.
Presente anche Armando d’Alterio, il procuratore che negli anni Novanta riaprì il caso, riuscendo a identificare i mandanti e a condannarli. Nella piccola e affollata Sala degli Specchi, lo ascoltiamo mentre rievoca gli anni dedicati al dossier, definendoli “i più belli della mia vita”. Racconta della sua dedizione al caso, di quando prese la foto di Siani dal fascicolo e la tenne a lungo nel portafoglio, per trarne coraggio. La rimise al suo posto solo dopo le condanne. Un gesto che mostra come il ricordo di Giancardo possa ancora ispirare, simboleggiando il rifiuto di arrendersi alla criminalità organizzata.
Criminalità che, come ricorda Nunzio Fragliasso, procuratore della Repubblica di Torre Annunziata, è tutt’altro che sconfitta. Ma più degli affari della camorra — oggi meno visibili, ma non per questo meno potenti — a preoccuparlo è il velo di omertà e indifferenza che ancora avvolge la città. Cita la vicenda di Maurizio Cerrato, ucciso nel 2021 per un posto auto. E ricorda ciò che accadde l’anno successivo, quando una messa in suo suffragio non vide la partecipazione di nessuno: né cittadini, né esponenti dell’amministrazione (poi sciolta per infiltrazioni camorristiche). Anzi, le abitazioni attorno alla chiesa chiusero le imposte. Nessuno volle vedere né sentire.
Fragliasso riconosce che qualcosa è stato fatto dalla nuova amministrazione, ma serve un segnale di discontinuità più forte: più azioni concrete, meno celebrazioni.
A concludere l’evento è il sindaco, Corrado Cuccurullo, che ribadisce l’importanza di ricordare Siani — a cui è stato intitolato un asilo nido — e annuncia che un terzo dell’avanzo di bilancio dello scorso anno verrà investito in nuove telecamere. Dopo un po’ di sana propaganda sull’impegno dell’amministrazione per la comunità, il primo cittadino annuncia che nei piani della giunta c’è anche l’abbattimento di Palazzo Fienga, ex residenza dei Gionta, un tempo detto “il municipio della camorra”, da anni sotto sequestro, oggi in stato di abbandono. Al suo posto sorgerà una piazza della legalità, dove il sindaco propone di costruire anche il nuovo commissariato. “Sarebbe bello intitolarla a Siani e a tutte le vittime della criminalità organizzata”, dichiara.
Cuccurullo rilancia inoltre la riqualificazione del quadrilatero delle carceri, zona da anni abbandonata, rifugio di latitanti e deposito di armi e droga. “Il progetto c’è già, ed è bellissimo — ci dice — ma costa trentasette milioni e non abbiamo una lira. Serve il supporto di tutte le istituzioni per restituire il rione alla città”.
Segnali di cambiamento, o l’ennesima chimera in un luogo che, come suggerito da Fragliasso, non ha mai smesso di essere Fortapasc? Se dessi retta a chi è più anziano di me, la risposta sarebbe già chiara: tutto è vano, ogni appello al cambiamento è fatto in malafede, solo per restare al potere, illudere la popolazione e fare nuovi “imbrogli”.
Imbrogli. Il convegno è finito. Mi dirigo alla stazione della Circumvesuviana per fare ritorno a casa: i tornelli sono aperti, la biglietteria deserta, ognuno fa come crede. E penso che forse questa piccola stazione trascurata sia la metafora di un’intera città, da chissà quanto tempo prigioniera della sottomissione, della prepotenza, della rassegnazione.
Nulla è cambiato in quarant’anni. Perché dovrebbe farlo ora?, mi chiedo osservando i binari sporchi e deserti, in attesa del treno in ritardo. Quasi mi viene da sorridere.
Sfiduciato, rileggo gli appunti della giornata e improvvisamente ripenso a Siani, al suo sorriso. Chissà se Giancarlo credesse di poter cambiare il mondo con i suoi articoli, o almeno la sua città. Probabilmente no. Immagino lo facesse perché amava il suo lavoro, e da vero “giornalista-giornalista” sentiva il dovere di raccontare i fatti, spiegare ciò che accadeva, semplicemente perché era giusto. Forse era consapevole dei rischi. Cosa gli sarebbe costato omettere un’informazione, un nome, in cambio di una vita più tranquilla? Perché immischiarsi? Si sa: “chi fa i fatti suoi campa cent’anni”. Ma che vita sarebbe, nella codardia, nella sottomissione, nella menzogna? Che senso avrebbe avuto viverla? Perché tradire la natura del suo lavoro, ciò che amava? Perché rinunciare alla speranza?
Ecco il treno. Ci allontaniamo dalla città, vedo i suoi palazzi color ocra nel tramonto, col mare sullo sfondo. E penso che non ci sia nulla di più bello.
di Simone Miccio
In un periodo in cui il ricordo rischia di cristallizzarsi nel rituale, è lo sguardo limpido e critico di un giovane studente a restituire autenticità all’eredità di Giancarlo Siani. Simone, con il suo “sorriso” di ragazzo ma con la maturità di un osservatore attento, incarna il ponte ideale tra la memoria e il futuro, tra gli ideali dei ragazzi di allora e le domande di oggi. Il suo articolo non è solo una cronaca, ma una lettura approfondita e disincantata di una comunità in bilico.
Con precisione giornalistica, Simone separa con nettezza i fatti storici – le rivelazioni dei magistrati Ceppaluni e d’Alterio, la drammatica denuncia del Procuratore Fragliasso sull’omertà – dalle promesse dell’amministrazione comunale. Il suo non è cinismo, ma il sano scetticismo di chi cerca coerenza tra le parole e i fatti, tra le celebrazioni in sala e la realtà di una stazione deserta e abbandonata che diviene metafora amara.
Proprio in quella capacità di analisi sta il valore più grande del suo contributo: dimostrare che l’impegno civile non ha età. Il suo sguardo, come quello di Siani, non si ferma alle apparenze, ma scava, cerca verità, e soprattutto, non ha paura di interrogarsi sul senso dell’agire quotidiano, anche quando il cambiamento sembra una chimera. Quello che faceva Giancarlo Siani.
Massimo Napolitano







