martedì 11 Novembre 2025
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Lo spettro della Bastiglia a Torre Annunziata

Demolire è semplice, riconvertire è rivoluzione: senza riuso sociale, anche le macerie diventano monumenti alla camorra

“Mi raccomando, quando vai a Parigi, vai a vedere la Bastiglia”. L’ironia di questa frase, spesso rivolta a chi non conosce la storia, racchiude un paradosso: edifici simbolici continuano a vivere nell’immaginario collettivo anche dopo la loro distruzione. A Torre Annunziata, nel rione delle Carceri, un parallelo con la prigione parigina emerge non solo nella toponomastica, ma nel destino di un luogo che ha segnato la storia cittadina.
Palazzo Fienga, un tempo emblema del glorioso passato dell’“arte bianca” quando la città era capitale della produzione di pasta, sta per essere demolito. Non per mano di rivoluzionari, come accadde alla Bastiglia, ma per decisione dello Stato italiano, che lo identifica come simbolo del potere camorristico. Tra i suoi 72 appartamenti, infatti, risiedeva Valentino Gionta, boss condannato all’ergastolo nel 2007 dopo decenni di carcerazioni. Dal 2015, con lo sgombero forzato degli inquilini – molti estranei alla criminalità –, l’edificio è diventato un monolite murato, in attesa, prima della riqualificazione, poi della ruspa.

La scelta di abbattere il palazzo rientra in una strategia che snatura la legge sul riutilizzo sociale dei beni confiscati, venderli (spesso a prestanomi degli stessi clan) o cancellare i luoghi con una prova di forza violenta che ha una valenza simbolica meno efficace della restituzione alla collettività. Tuttavia, come accaduto a Parigi, dove la memoria della Bastiglia sopravvive nonostante le sue pietre siano state disperse, anche a Torre Annunziata il “fantasma” di Palazzo Fienga rischia di persistere. Se al posto dell’edificio sorgerà un vuoto urbano, anziché un centro sociale, una struttura produttiva o uno spazio culturale, quell’assenza potrebbe trasformarsi in un monumento involontario alla camorra. Senza riutilizzo sociale, il simbolo della sconfitta criminale rischia di svanire, lasciando intatta l’ombra del passato.

La lezione della storia è chiara: la demolizione non basta. Esempi come il castello di Ottaviano, già roccaforte di Raffaele Cutolo, riconvertito in bene comune, dimostrano che il riuso è l’unico esorcismo efficace, come la Masseria Ferraioli ad Afragola o il fondo rustico Lamberti a Scafati. A Torre Annunziata, l’Albergo Libera Gioventù – nato da un bene confiscato al clan Cesarano – racconta già ai turisti le storie delle vittime innocenti e di chi ha combattuto la mafia. Sono progetti che sostituiscono alla logica della distruzione quella della rigenerazione, restituendo alla comunità spasi sottratti alla illegalità.

Oggi, mentre si attende l’abbattimento di Palazzo Fienga, la sfida è evitare che quel gesto si riduca a una cerimonia vuota. Lo Stato vince davvero quando trasforma un simbolo di oppressione in opportunità concreta. Come insegnano figure come don Ciotti e don Tonino Palmese, o magistrati come Ernesto Aghina, la memoria delle vittime e dei caduti si onora costruendo futuro, non cancellando il passato.

Se la Bastiglia sopravvive come idea di libertà, Palazzo Fienga potrebbe rinascere come promessa di riscatto. Ma per farlo, servirà più coraggio di quello impiegato per imbracciare un piccone. Servirà immaginare, come già accaduto altrove, che dalle macerie possa nascere una comunità più forte. Senza questa visione, anche le demolizioni più eclatanti rischiano di essere, semplicemente, un altro capitolo della stessa storia che ha violentato Torre Annunziata per decenni. Prima la camorra, oggi lo Stato.

[Nota a margine] Un parallelismo storico poco noto: la demolizione della Bastiglia, spesso associata all’insurrezione popolare del 1789, era in realtà già stata pianificata dal governo francese anni prima, quando la fortezza aveva perso la sua funzione originaria e ospitava appena sette detenuti. Allo stesso modo, Palazzo Fienga smise di essere il “quartier generale” della camorra locale già da tempo, con l’arresto di Valentino Gionta. Il potere criminale, del resto, si era nel frattempo trasferito altrove, lasciando l’edificio come relitto di un’epoca passata e la camorra ha indossato i colletti bianchi del malaffare e della corruzione. La riflessione che emerge è doppia: da un lato, gli edifici sopravvivono spesso al loro ruolo simbolico, diventando testimoni muti di storia e identità; dall’altro, la cancellazione fisica di un luogo non basta a estirparne il significato, specie se non si offre un’alternativa capace di riscriverne il valore. Forse è proprio qui la sfida: riconoscere che un palazzo può essere al contempo memoria di crimini e patrimonio produttivo collettivo, a patto di saperlo rigenerare.

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