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“La natura del bastardo”, incontro con il Poeta Davide Rondoni

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“La Natura del bastardo”, la nuova raccolta di poesie di Davide Rondoni.

La poesia, quella forma “d’arte” che per taluni non è arte ma, processo creativo nato per ispirazione divina. E per altri più semplicemente una inclinazione naturale fondamentale dell’uomo volta a ricucire i fili dell’animo, mediante l’uso delle parole.

Parole che soddisfano. Parole che non soddisfano. “Parole impotenti” ma potenti arcani di un’esperienza fortemente intima e individuale. Universale.

“La poesia e la letteratura sono fenomeni umani. Appartengono alla piccola serie delle cose che l’uomo ha sempre fatto, pur in diversi modi. Non è una invenzione capitata a un certo punto della nostra storia. No, dove c’è un uomo c’è sempre stata, e sempre ci sarà, arte. E’ arte delle parole, dunque”

Questa è la concezione della poesia di Davide Rondoni autore romagnolo, uno tra i maggiori poeti italiani contemporanei, formatosi nella bottega d’arte di maestri della caratura di Mario Luzi e Giovanni Testori. Ha pubblicato numerosi volumi di poesia in Italia e all’ estero ottenendo numerosi premi e riconoscimenti. Ha fondato e dirige il Centro di poesia contemporanea dell’Università di Bologna, è presente nelle più importanti antologie di poesia italiana del secondo Novecento edite da Mondadori, Rizzoli e in numerose altre. Scrittore, saggista, traduttore di Rimbaud, Péguy, Dikinson e Baudelaire, ha pubblicato di recente un nuova raccolta di poesia dal titolo “La Natura del bastardo”, edita da Mondadori e presentata in numerose città italiane. Tema centrale del libro è il concetto di imbastardimento come necessità positiva.

Davide Rondoni al primo incontro, colpisce subito per la sua straordinaria sensibilità, parla in maniera affabile e gentile ma sincera, sempre disponibile al dialogo e al confronto con tutti, senza far pesare all’ interlocutore l’imponenza della sua grande cultura. Sorprende per la sua visione “orizzontale” dell’esistenza che passa al setaccio qualsiasi forma di gerarchia, che mette al centro l’altro da sé, la persona scevra da qualsiasi sovrastruttura “verticale”. L’unica forma di “verticalizzazione” operata dal poeta Rondoni ha a che vedere con le parole.

La provinciaonline lo ha intervistarlo nel salotto dell’Art-gallery partenopea in via Bonito Oliva (Vomero-Napoli) dove l’autore ha letto le sue poesie e ha dialogato con i suoi lettori.

A proposito del suo ultimo libro “La natura del bastardo” come nasce e cosa vuol significare il titolo?

È nato per due motivi. Il primo, per una sorta di sfida: ad un certo punto un poeta a meno che non voglia condannarsi all’inutilità, deve affrontare il grande tema su cui il maledetto gobbo di Recanati, Lucrezio, Ungaretti, Luzi … sono arrivati tutti, cioè il tema della natura. La poesia in Italia e non solo, ma soprattutto in Italia, non si può fare se ad un certo punto, non si affronta il tema della natura, tanto più in un’epoca come questa che di essa fa feticcio e idolo per molti aspetti. Subito mi è sorto il titolo come Natura del bastardo, un libro al quale ho lavorato otto anni, abbastanza elaborato, con tanti lavori anche formali che chi ha chi ha più occhi sulla poesia potrà divertirsi a vedere. A metà del lavoro è nato questo titolo perché oggi siamo ricattati da una certa idea di purezza, tutta mentale. Come se la purezza fosse qualcosa che possiamo creare: le mani pulite, il km 0, il bio, l’assoluta sincerità, la trasparenza, i protocolli che non s’infettano nemmeno con l’errore umano… La conquista della purezza sembra lì a portata di mano, come se la vita fosse bella se asettica, ed è un ricatto mentale, una pura idea, che sta ricattando e arrestando la vita la quale procede solo per imbastardimento: le razze, la lingua, se non si imbastardiscono non proseguono…ho voluto cogliere questo elemento: l’esistenza procede solo per “imbastardimento”, parola in genere usata negativamente e che si rovescia per propulsione, in positività dell’esistenza. Del resto per chi è cristiano come me, che Dio si è imbastardito, si è fatto uomo, è il più grande imbastardimento della storia. Questo è stato il fuoco che mi ha permesso di comprendere che nella natura non c’è nulla di puro. Non esiste nulla in purezza nella natura, la natura è una continua evoluzione di imbastardimenti e la vita è lo stesso.

In merito ad poesia contenuta in questo suo volume a p. 48 “Per l’ultima volta Dante uscendo da un locale  affollato, occhi stanchi di fuoco vede Beatrice”: se volesse offrire delle linee guida ai filologi per una futura edizione critica della sua opera, posto che, come alcuni studiosi hanno sostenuto in Dante, Beatrice è espressione della poesia nella sua forma più completa, questa visione di una B. che fuma, una B. dissacrata, ha che vedere con una poesia dissacrata? Con il senso di perdita oggi nei riguardi della poesia? Ma guardando qualche suo filmato non mi pare però che lei consideri oggi la poesia in pericolo…

No.

 Allora questa poesia che “pare” dissacrata -nel senso “continiano” del termine, che si manifesta dissacrata- che fuma e ride, in realtà non ha a che vedere con la svalutazione di sé, ma con il senso tragico dell’esistenza, proprio come fa la poesia classica?

Il discorso che ha fatto sta tutto in piedi eccetto in una cosa, che Beatrice non simboleggia la poesia. Beatrice è Beatrice. Fa un miracolo come dice Dante. È una donna che ha portato a Dante una specie di miracolo, quindi quando si parla di Beatrice non si parla della poesia o della teologia, questa è una cosa che fanno i professori o i filologi, ma io non sono d’accordo. Beatrice non è il simbolo della poesia. Il discorso che lei ha fatto è giusto, la poesia non è in pericolo. Non è fatta per essere aulica o vivere a mezz’ aria, ma parla della vita ed è fatta anche della tragedia, poi la vita non è fatta solo di tragedia… Ci sta questo aspetto per cui la poesia fuma e ride. Beatrice fuma e ride perché è una donna. E DANTE SI INNAMORA DI UNA DONNA, non della poesia. Dante come tutti i grandi autori non pensava che la poesia fosse il senso della vita o la cosa più importante della vita. Un poeta che pensa questo non ha capito niente della poesia. La poesia è seconda, mai prima. L’arte non solo la poesia, è seconda. Viene prima l’esistenza e le cose dell’esistenza: il mare, l’amore, il dolore…la poesia viene dopo non nel senso temporale, ma come valore…in questo sicuramente Dante la pensava così, tant’ è vero che la sua poesia è “sporca”. Dante esegue esattamente questa grande operazione, dimostra che una lingua “volgare”, cioè una lingua dove sono presenti tutti gli elementi di imbastardimento, di torbido dell’italiano, dialetto toscano di allora, è in grado di dire l’intera esistenza. Si dice che Dante abbia fondato l’italiano, in questo senso: dimostra che una lingua “sporca” e “bassa” può parlare dell’al di là, del respiro, di Dio, della filosofia e ne dimostra la grande vita. Son d’accordo con il suo discorso se togliamo il fatto di Beatrice simboleggi la poesia perché Beatrice è Beatrice, punto. ‘E quello che i critici non vogliono capire, i critici di Dante non vogliono capire che Beatrice è Beatrice. Dante continua a parlare di Beatrice come di Beatrice e loro parlano di Beatrice come: l’allegoria della teologia, l’allegoria della filosofia, l’allegoria della poesia. No. Beatrice è una ragazza che Dante incontra e che purtroppo muore. Questa è la grande differenza tra Beatrice e Laura. Laura è un idolo Beatrice invece, è una ragazza.

Riguardo al discorso su Dante e sul linguaggio, c’è un’altra poesia che comincia con la didascalia Dantesca:

Se io mi intuassi come tu ti immii […]

sappiamo che Dante ha inventato tantissime parole ci sono delle parole che lei ha avuto l’esigenza di inventare perché non riusciva a trovare nella lingua italiana dei vocaboli che potessero esprimere quello che lei voleva dire con la poesia? 

Ci sono, non in questa raccolta, ma in un paio di raccolte precedenti… giunto in un certo momento della mia ricerca poetica, intorno al III o IV libro, c’è stato un lavoro di smontaggio, di rimontaggio, di invenzione di alcuni termini. È un passaggio inevitabile che un poeta deve fare, che può esibire o meno, un problema di invenzione del linguaggio che può rimanere o può essere invece una sorta di ginnastica per tornare a ridare vita alle parole normali che tutti possono intendere e usare, però quella energia resta, resta quel lavoro fatto di invenzione, perché è un’invenzione non tanto dell’aspetto solamente esteriore, fonetico o della parola, ma è una “sovra-invenzione” del suo senso. Questa ricerca di invenzione se la si è fatta, la si porta dietro. Io poi mi sono formato da almeno tre maestri, uno è Mario Luzi che sicuramente ha avuto una gran forza di invenzione non nel senso sperimentale, ma nel senso di riscoperta della forza del toscano; l’altro invece era Testori un grande poeta che invece ha eseguito un lavoro di sperimentazione, più di Gadda. Io l’ho fatto e in buona parte continuo a farlo ma, adesso è come se decidessi di non esibirlo e di fare in modo che quella tensione lì viva in me nel parlare dicendo mare, albero, lucciole…

In merito al problema della traduzione invece, tenendo conto che lei oltre ad essere poeta e scrittore ha tradotto numerose opere, posto che, “quando si traduce un’opera se ne crea un’altra”, ci sono delle opere che non possono essere tradotte?

Qualcuno lo pensa, Luca Canali che è un grande traduttore del latino pensava che alcune opere siano intraducibili, io non credo ci siano opere intraducibili in assoluto, poi è chiaro, ci sono quelle che presentano un maggior grado di difficoltà, noi italiani però abbiamo una grande fortuna, che l’italiano è una lingua con una tastiera sterminata…abbiamo molteplici possibilità nella nostra lingua: sa essere dolcissima e dura, sa essere epica e molto lirica. Disponiamo di innumerevoli registri, tant’ è vero che l’ Italia ha sempre tradotto molto, più che al contrario. Per cui Noi siamo fortunati. Non esiste una impossibilità teorica nella traduzione, poi è chiaro che per tradurre Rilke bisogna essere bravi, che tradurre Rimbaut, con cui mi sono misurato è difficile, ma soprattutto bisogna uscire dall’ idea della traduzione in genere più in voga (c’è un lungo dibattito su questo…), secondo cui “traduttore è traditore”, oppure “tradurre per dire quasi la stessa cosa”. La traduzione è un altro tipo di lavoro che non è né il tradurre tradendo, né il dire quasi la stessa cosa. Bisogna uscire da quel paradigma sbagliato perché parte dalla presunzione che sia possibile una perfetta coincidenza e siccome non si riesci a farlo ci si sente traditori, è sbagliato l’assunto.  Durante i master sulla traduzione inizio sempre dicendo,  in Paradiso non ci saranno traduttori. È questa la condizione inevitabile. Chi pensa che il paradiso sia dietro l’angolo e che se si traduce si tradisce, si pone come obiettivo l’impossibilità…la traduzione è un incontro, un’imitazione, ma soprattutto un grande rapporto. È una grande ermeneutica. Allora perché aver paura del rapporto? Perché dire che il rapporto o è diventare identici o non esiste? Il rapporto è anzi rimanere fino in fondo se stessi, che poi è la cosa più difficile da fare traducendo. Tradurre non è imitare l’ altro fino ad assomigliargli, ma entrare in un rapporto dove si rimane fino in fondo se stessi. Se traducendo Baudelaire avessi scritto in un italiano dell’ottocento per essere più vicino temporalmente all’ autore lo avrei distrutto, invece ho deciso di essere me stesso fino in fondo. Nella traduzione viene fuori il grande tema di cos’ è l’ermeneutica, di cosa vuol dire un rapporto interpretativo, a tutti i livelli non solo linguistici. Pensare che tradurre sia tradire, significa semplicemente ritenere che ogni rapporto sia impossibile. Spesso infatti chi considera il traduttore un traditore è lo stesso che ritiene non possa esistere nessun rapporto vero, che sia sempre tutto un po’ finto. Ma io ritengo invece, che spesso ci siano grandi spazi di verità nei rapporti tra le persone e quindi, non direi mai ”traduttore traditore” sarebbe come dire amici finti.

 

 

 

 

 

 

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