La classe di Fabiana Iacozzilli è uno spettacolo rivelazione, premiato nel 2019 con l’In-box, l’ANCT e l’UBU per il miglior progetto sonoro. Questo docupuppets scaturisce dai ricordi dell’autrice, in particolare dalle memorie dell’educazione rigida ricevuta da parte della sua maestra elementare, Suor Lidia.«A distanza di trent’anni ho deciso che avrei realizzato uno spettacolo a partire da quei ricordi e mi sono messa alla ricerca dei miei ex compagni,– racconta la Iacozzilli – ritenendo indispensabile ricreare quella “comunità” con la quale ho condiviso l’esperienza in questione. Per iniziare a ricomporre i tasselli della “storia” li ho intervistati, ponendo loro domande molto semplici: “Com’era Suor Lidia?”; “Cosa ti ricordi di lei?”; “Ti ricordi cosa accadeva in classe?”; “Sei stato felice quando è morta?”. Parallelamente al lavoro sulle interviste Fiammetta Mandich ha realizzato dei fantocci/burattini a immagine dei miei compagni, per far interpretare loro gli episodi da noi vissuti tra i sei e i dieci anni di vita.» Così, in scena, vediamo dei bambini interpretati da pupazzi che si muovono su dei tavolacci di legno, mentre Suor Lidia è l’unica presenza in carne ed ossa. E quando a un certo punto affida a Fabiana la regia di una piccola scena per una recita scolastica decide, forse, insieme a lei, la vocazione della sua alunna. Una “ricerca di pezzi di memorie andate”, prosegue Fabiana Iacozzilli, aggiungendo “i miei compagni mi hanno aiutato a trovare una rotta e, infine, a comprendere la natura del lavoro. La Classe ha trovato il suo vero significato nel momento in cui ho rinunciato a quello che volevo raccontare in origine e mi sono messa in ascolto della materia che stavo indagando”.
Durata: 55 minuti
Fabiana Iacozzilli, dopo la Classe, continua a trasformare la riflessione autobiografica in materia scenica dal valore universale; qui si interroga sulle paure relazionate alla maternità: la paura di diventare madre, quella di non diventarlo e ancora, sulla paura di dire di non voler essere madre. Sul palco, c’è una donna con una pancia enorme che si è cucita la vagina con una corda a cui ha fatto un grande nodo scorsoio per impedire al pargolo di venire al mondo. È incinta da un tempo indefinito e da un tempo infinito trattiene e ritarda l’evento.«Siamo in uno spazio dell’anima, in uno spazio in cui l’anima gesticola e ci fa interrogare sulla nostra condizione di donne e uomini perennemente in bilico tra il voler essere genitori e il rimanere figli, ma anche su un’altra questione: nel momento in cui dai la vita a qualcuno lo stai più semplicemente condannando alla morte? – dice l’artista – Nel corso di questo processo artistico, come già avvenuto per il mio precedente lavoro La classe, ho capito la natura del progetto nel momento in cui mi sono davvero messa in ascolto della materia che stavo indagando. Questo momento è avvenuto quando mio padre si è ammalato e, a mio avviso, per l’essere umano che sono, ho fatto qualunque tipo di cosa enorme per lui. […] Lo spettacolo è dunque diventato un oggetto emotivo che s’interroga sulla paura e sul desiderio dell’abbandonare se stessi alla cura di un altro essere umano, che s’interroga su una questione che appartiene a ogni donna, alla sua condizione esistenziale – che sia madre o che non lo sia – e che ha a che fare con una domanda semplice ma per niente consolatoria: “forse, alla fine, si è madri comunque?».
Durata: 90 minuti
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